Diario di un ricovero
ospedaliero
Sette maggio 2004: entro in servizio alle ore 13, lavoro
come
infermiere professionale presso la Clinica
Otorinolaringoiatrica
dell'Ospedale San Martino di Genova: le colleghe notano che
ho
difficoltà a tenere la testa diritta e che mi reggo in piedi
con
fatica. Ho anche problemi a deglutire liquidi e un
abbassamento della
palpebra superiore sinistra.
Vengo accompagnato al pronto soccorso da un medico del
reparto e colà,
dopo una visita neurologica, viene formulato il sospetto di
una
miastenia gravis.
Per chiarire il quadro clinico viene eseguita una TAC
toracica con
mezzo di contrasto che evidenzia la presenza di un timoma,
(tumore del
timo), di notevoli dimensioni. Il giorno dopo vengo
trasferito in
Clinica Neurologica.
Comincio ad avvertire il disagio di essere un paziente, sono
passato da
un giorno all'altro dalla condizione di operatore sanitario
a quella di
ricoverato; nel frattempo mia madre, che era a casa, affetta
dal morbo
di Alzheimer e che io accudivo, muore, ma io non posso
ottenere il
permesso di lasciare l'ospedale in quanto le mie condizioni
cliniche
non lo permettono.
Credevo, sino a qualche giorno fa, di essere affetto da una
sindrome
ansioso-depressiva, ora scopro che la stanchezza che
avvertivo durante
le attività quotidiane, e soprattutto durante il lavoro, era
causata
non da problemi psicologici o psichiatrici ma bensì dalla
miastenia,
che causa un senso generale di affaticamento.
In Clinica Neurologica mi vengono fatti altri esami
ematochimici,
in particolare la ricerca di autoanticorpi: la miastenia è
infatti una
malattia autoimmune, il sistema immunitario, impazzito,
produce
anticorpi diretti contro strutture appartenenti al proprio
corpo, al
“self”, come si dice, invece di limitarsi a produrli contro
il
“non-self”, ossia contro gli agenti esterni, batteri o virus
che siano.
In particolare nella miastenia gli anticorpi sono diretti
contro i
recettori per l'acetilcolina presenti nella giunzione
neuromuscolare,
il vitale punto di collegamento tra il nervo e il muscolo.
Scopro con spavento di dovermi sottoporre a un intervento
chirurgico,
una timectomia, cioè l'asportazione del timoma.
Pare che questo intervento possa migliorare di molto la mia
situazione
clinica.
Inoltre, come mi viene spiegato dal chirurgo toracico che
viene a
visitarmi, c'è il rischio che il tumore, che è già piuttosto
voluminoso, comprima le strutture vitali contenute nel
mediastino, lo
spazio compreso tra i due polmoni, dove si trovano organi
come il cuore
e l'esofago, e grosso vasi come l'arteria aorta.
Il chirurgo mi spiega come verrà effettuato l'intervento:
una
sternotomia, e subito dietro lo sterno si trova il timo, che
verrà
asportato.
La cosa che mi inquieta di più tuttavia è il decorso
postoperatorio, in
quanto mi viene spiegato che c'è la possibilità che debba
restare
alcuni giorni in un reparto di rianimazione perché potrei
avere dei
problemi respiratori: infatti la malattia può provocare
anche un
deficit dei muscoli respiratori e quindi la necessità di una
ventilazione assistita.
Vengo trasferito temporaneamente nel reparto dove lavoro
come
infermiere, in Clinica Otorinolaringoiatrica, dove vengo
gentilmente
ospitato in attesa che si liberi un posto nel reparto di
chirurgia dove
verrò operato.
Il problema organizzativo principale pare sia la
disponibilità di un
posto letto in un reparto di rianimazione, dove dovrei
restare qualche
giorno dopo l'intervento.
Nel frattempo le condizioni neurologiche peggiorano: è
insorta una
diplopia, visione sdoppiata, dovuta ad un deficit dei
muscoli
oculomotori.
Non riesco più a leggere e la cosa mi deprime alquanto,
tanto che
comincio ad avere difficoltà anche ad alimentarmi.
Viene consultato un nutrizionista che mi prescrive degli
integratori
alimentari.
Sono trascorsi, dal giorno del mio ricovero, quasi due mesi.
Le giornate trascorrono lentamente, mi annoio, unico momento
di gioia
le visite quotidiane della mia compagna che si occupa anche
di tutti i
problemi burocratici legati alla scomparsa di mia madre.
Arriva finalmente il giorno del trasferimento nel reparto di
chirurgia
dove sarò operato.
La notte dell'intervento un'infermiera mi prepara una tazza
di
camomilla, riesco a dormire.
Alla mattina, dopo aver salutato la mia compagna e due
colleghe che
sono venute a salutarmi, vengo accompagnato nella sala
operatoria, sono
sereno.
Scopro che molti vogliono vedere il mio intervento, una
dottoressa che
è stata invitata ad andare ad assistere ad un'altra
operazione dice: “io il timoma non me lo perdo”.
Si tratta infatti di una patologia piuttosto rara, i malati
di
miastenia in Italia sono soltanto 15000.
Mi risveglio nel “box numero quattro” del servizio di
rianimazione
adiacente alle sale operatorie, sono intubato e attaccato ad
un
respiratore, una vena centrale è stata incannulata per
somministrarmi
farmaci e alimenti, le mie funzioni vitali sono
costantemente
monitorate grazie ad una serie incredibile di strumenti.
Nel pomeriggio, su mia richiesta (non posso parlare,
naturalmente, ma
comunico a cenni e scrivendo su di un foglio di carta),
vengo stubato,
viene cioè rimosso il tubo endotracheale che rende possibile
la
ventilazione assistita.
Sono contentissimo ma, mentre trascorrono i minuti, mi rendo
conto che
respiro con sempre maggiore difficoltà: chiamo aiuto,
vengono la
caposala e un'infermiera, chiedo loro di permettermi di
telefonare alla
mia caposala perchè mandi un mio collega a tenermi
compagnia, voglio
che qualcuno resti con me, mi viene risposto che ciò non è
possibile,
la situazione respiratoria peggiora, adesso non riesco più a
respirare,
perdo conoscenza, vengo reintubato.
Sono rimasto senza tubo endotracheale soltanto qualche ora.
Essere in ventilazione assistita è una sensazione molto
strana: alcuni
atti respiratori vengono effettuati autonomamente altri, in
particolare
quello che da un anestesista viene definito “il respirone”,
vengono
imposti dalla macchina: questo naturalmente dipende da come
viene
impostato il ventilatore meccanico.
Io riesco a fare due, tre atti respiratori autonomamente (la
macchina
accompagna e aiuta la mia respirazione), il quarto atto
viene provocato
dal ventilatore ed è molto lungo e profondo.
Non posso muovermi, sono letteralmente inchiodato al letto.
Il pericolo principale, in rianimazione, è rappresentato
dalle
infezioni: infatti vi sono troppe vie di ingresso per i
germi: il
catetere vescicale, le linee venose centrali, il catetere
arterioso per
la rilevazione continua della pressione arteriosa.
Periodicamente si forma del catarro nelle vie respiratorie
che ostacola
la respirazione: debbo allora chiamare l'infermiere che si
occupa di me
per essere aspirato: il ventilatore viene temporaneamente
staccato ed
egli inserisce un sondino d'aspirazione attraverso il tubo
endotracheale per aspirare le secrezioni.
La cosa curiosa è che in rianimazione, con mia sorpresa, non
esistono i
campanelli: la guardia effettuata dagli infermieri è infatti
definita
una “guardia attiva“, cioè sono loro che si devono rendere
conto dei
problemi del paziente e porvi rimedio, a differenza della
“guardia
passiva“ che viene effettuata nei normali reparti di
degenza dove
fino ad ora avevo lavorato.
Capisco queste regole ma penso che, per un paziente sveglio,
dovrebbe
essere messo a disposizione un campanello: non potendo
parlare,
infatti, l'unico modo che ho per attirare l'attenzione è
quello di
sfilarmi dal dito il saturimetro, una sorta di ditale che
monitorizza
la concentrazione di ossigeno nel sangue: dopo qualche
secondo suona
l'allarme e arriva l'infermiere.
Il tempo passa, vengo stubato e trasferito nel reparto di
terapia
subintensiva.
Anche qui però si ripete il problema dell'insufficienza
respiratoria:
mentre il direttore del dipartimento, al mio
cappezzale, mi urla
di respirare io perdo nuovamente conoscenza.
Quando mi risveglio vedo l'anestesista che mi ha intubato
che, sopra di
me, mi sta ventilando con un pallone ambu, non riesco a
muovere nulla,
nemmeno le dita, sento la voce della mia compagna che,
piangendo,
chiede mie notizie, sento i commenti dei medici e degli
infermieri, con
terrore odo la frase “se va avanti così dovremo fare una
tracheotomia”,
cerco di stare calmo, dopo la difficoltà respiratoria che ho
sperimentato il ventilatore meccanico è quasi una
benedizione, mi dà
sicurezza, si occupa lui di farmi fare degli atti
respiratori validi
ed efficaci.
Di notte non riesco a chiudere occhio, di giorno nemmeno, e
la cosa va
avanti da più di un mese.
Sono esausto ma non mi riesce di addormentarmi: sono troppo
intento a
sorvegliare tutto quello che accade intorno a me, campanelli
d'allarme
suonano in continuazione, la pompa infusionale di una flebo
che è
terminata, il saturimetro che si è spostato dal dito, un
elettrodo del
monitoraggio dell'elettrocardiogramma che si è staccato, la
pressione
arteriosa che è troppo alta o troppo bassa, la frequenza
cardiaca che è
salita, e ad ogni allarme io sobbalzo e mi spavento.
Quando la mia compagna mi viene a trovare mi rilasso e ho
momenti nei
quali, letteralmente, svengo dal sonno, ma esso dura
soltanto pochi
secondi, mi risveglio subito con un sobbalzo, non lascio che
il mio
corpo si abbandoni al sonno nemmeno per un minuto: ci sono
troppe cose
da tenere sotto controllo!
Chiedo alla mia compagna di sposarmi, lei accetta: il
matrimonio verrà
celebrato in rianimazione e, a detta di medici e infermieri,
è la prima
volta che una cosa del genere accade.
So che lei lo ha fatto per darmi forza, un motivo in più per
cercare di
guarire, per tirarmi fuori dal “box numero quattro”.
La mattina del 26 luglio 2004, giorno in cui viene celebrato
il
matrimonio, vengo stubato per l'occasione.
La cerimonia è molto rapida, le infermiere scattano
fotografie, siamo
tutti commossi, io, la sposa, i testimoni e gli amici.
Grazie al matrimonio viene gentilmente concesso alla mia
compagna,
adesso mia moglie, che beneficia di un permesso
matrimoniale, di avere
degli orari d'ingresso in rianimazione più elastici: io
aspetto con
ansia il momento del suo arrivo, voglio che mi parli in
continuazione,
raccontandomi tutti gli avvenimenti di quella che ormai
considero “la
vita fuori”.
Nel frattempo continuano gli accertamenti, vengono
effettuate le
indagini più disparate, una nuova TAC toracica con mezzo di
contrasto,
ecografie, elettrocardiogrammi, una biopsia midollare (si
sospetta una
sindrome mieloproliferativa), un broncoaspirato (per il
quale vengo,
fortunatamente, addormentato), visite dello specialista
neurologo,
cardiologo, internista, oculista, eccetera.
Si sospetta, tra le altre cose, una trombosi della vena
cava, e per
questo motivo mi vengono somministrati degli anticoagulanti.
Qualche giorno dopo, durante un'ecocardiografia, sento il
medico
esclamare: “il cuore galleggia”.
Purtroppo so cosa significa: un versamento pericardico,
situazione
potenzialmente letale.
Il cardiochirurgo tenta di inserire un ago nello spazio
pericardico
dall'esterno, per effettuare una pericardiocentesi, ma la
presenza del
processo cicatriziale dovuto al primo intervento sul torace
impedisce
questa manovra, devo quindi ritornare in sala operatoria.
Dopo l'intervento, che viene effettuato la sera stessa, mi
risveglio
nuovamente intubato.
Trascorrono ancora due settimane , durante le quali vengo
stubato,
riprendo lentamente ad alimentarmi, mi viene sospesa la
nutrizione
parenterale (la nutrizione per via venosa), e un bel giorno
mi viene
chiesto se sono contento di uscire dalla rianimazione:
chiedo “perchè,
vengo trasferito?” e mi viene risposto di sì: finalmente
vengo
trasportato nella terapia subintensiva, poi nella degenza:
ne sono
uscito, quasi non credevo che sarei tornato ad una vita
normale.
Sono trascorsi quattro mesi dal giorno del mio ricovero, due
dei quali
trascorsi in rianimazione.
Quando esco dall'ospedale osservo con meraviglia le auto,
gli edifici,
la gente.
I sintomi neurologici della miastenia sono scomparsi, inizia
la
convalescenza, durante i pomeriggi amo passeggiare per le
vie del
centro e guardarmi intorno.